2/28/2007
Architettura naturale, di Giovanni Corbellini
Alessandro Rocca
"Architettura naturale"
22 publishing, Milano 2006
pp. 215, € 22
"È ormai qualche tempo che scambiando opinioni con altri architetti della mia generazione emerge diffusa la sensazione di trovarsi di fronte a una situazione di stallo, come se nessuno, celebri star o esordienti rampanti, fosse più in grado di produrre qualcosa di veramente significativo. Può darsi che si tratti del disincanto fisiologico di chi, avvicinandosi alla mezza età, non riesce a provare le emozioni delle prime scoperte, ma è anche vero che mostre, libri, riviste e sopralluoghi ci restituiscono un mainstream internazionale tanto ansioso di darsi una immagine sperimentale e trasgressiva quanto, in definitiva, incapace di deviazioni sulfuree o, semplicemente, di una reale capacità di tagliare angoli e meandri delle pratiche consolidate e produrre visioni innovative.
Alcuni tra i più giovani sembrano voler reagire a questa situazione riproponendo l'ennesimo ritorno a ipotesi autonomiste, ai fondamentali dell'architettura. Un tentativo quantomeno prematuro, vanificato nelle sue intenzioni rivoluzionarie dalla similitudine con i colpi di coda delle retroguardie, e, di fatto, così abusato da confermare la percezione di una disciplina avvitata in una sterile coazione a ripetere. Con maggiore freschezza, altri provano viceversa a sondare mondi paralleli, anche marginali, nei quali cercare una possibile rigenerazione del nostro sguardo, se non delle nostre attitudini progettuali. Un obiettivo che la 22 publishing, nuova casa editrice milanese, intende perseguire fin dalla sua prima proposta. Il titolo del bel libro di Alessandro Rocca, Architettura naturale, assume a questo proposito un significato programmatico, che va al di là della referenzialità diretta con i materiali in esso presentati.
La raccolta di una serie di opere e installazioni a cavallo tra arte, architettura e paesaggio, in diverso modo connesse a una manipolazione leggera di "oggetti trovati" nella e della natura, fa qui da sfondo alla ricerca di una maggiore "naturalezza" del gesto progettuale, della sua necessità. Nell'ampia sequenza di immagini e di brevi commenti relativi a lavori anche molto recenti spicca infatti il capitolo dedicato alla mostra di Bernard Rudofsky sull'Architettura senza architetti, tenutasi al MoMA nel 1964 e dedicata a illustrare esempi di edilizia prodotta direttamente dai suoi utilizzatori, soprattutto presso culture strettamente legate ai propri territori. La connessione diretta tra modi di vita, risorse disponibili e prestazioni funzionali che contraddistingue quelle realizzazioni assume per gli architetti -sostiene l'autore- il medesimo ruolo che hanno avuto silos, piroscafi, aeroplani e automobili per Le Corbusier, o -potremmo aggiungere- della strip di Las Vegas per Venturi: un invito, cioè, a spogliarsi delle sovrastrutture discipinari e guardare la realtà con attenzione ai processi che la producono.
Al contrario delle strutture indagate da Rudofsky, gli interventi raccontati da Alessandro Rocca sono tutto fuorché spontanei. Il loro interesse sta nel complesso intreccio di questioni e strumenti che sovrintende alla loro palese semplicità, nel trasferimento di modalità di approccio tra mondi differenti e nella loro sovrapposizione. La sensibilità climatica dell'Ice Pavilion di Olafur Eliasson si alterna alla differenziazione dei microclimi sperimentata da N Architects nella loro installazione al PS1 a New York. Le macchine per guardare di Ex.Studio o di Chris Drury (le cui Cloud Chamber utilizzano il principio della camera oscura) attivano specifiche condizioni paesaggistiche che danno luogo a sottolineature simboliche nei Cannocchiali estimativi di Giuliano Mauri, collocati a cavallo del Neisse tra Germania e Polonia. Analoghi effetti ottici sono rintracciabili nelle installazioni di Mikel Hansen o nella Waterhouse di Nils Udo. Ancora Giuliano Mauri usa materiale vivente nella sua Cattedrale vegetale, e come lui Marcel Kalberer nelle Sanfte Strukturen e David Nash nell'Ash Dome. Gli stessi autori e gli altri presenti nel volume impiegano largamente materiali il più delle volte reperiti in sito -acqua, pietre, ciottoli, paglia, rami, tronchi di alberi caduti- e tecniche tutt'altro che sofisticate, basate sull'autocostruzione e spesso sulla partecipazione di vasti gruppi di volontari.
Caratteristiche materiali e costruttive che istituiscono un rapporto sensibile, interattivo con luoghi e tempi, disponibile ad accogliere eventi ed incidenti in forme transitorie e temporanee. Un approccio che il mondo dell'arte definisce con la formula site specific, fatto dell'interpretazione delle potenzialità locali, dell'incontro tra quello che si trova sul posto e uno sguardo altro.
Leggendo il libro e ragionando sulle sfide progettuali lanciate dall'insieme dei suoi contenuti, mi è venuta in mente la famosa incisione di Claude-Nicolas Ledoux con la casa delle guardie campestri nel castello di Maupertuis. La sfera edificata che campeggia al centro dell'immagine è posta all'interno di uno scavo, operazione che ne sottolinea la prepotente autonomia. Quasi invisibile, sul lato sinistro dell'inquadratura, sorge una specie di "capanna primitiva" fatta di rami e di frasche, probabilmente costruita dal pastore che è lì davanti con il suo gregge. Da una parte un programmatico distacco dalla natura o, in altri termini, la raffigurazione della volontà di dominarla, dall'altra una più amichevole forma di adattamento alle occasioni contingenti. Sebbene la similitudine morfologica e materiale con il secondo approccio risulti subito evidente, le "architetture naturali" di Rocca condividono con la sfera di Ledoux più di un aspetto: esprimono specifiche e sofisticate intenzioni progettuali, descrivono e rappresentano modi contemporanei di interpretare la trasformazione ambientale, evitano di legarsi a particolari necessità funzionali, attivano contrasti quasi surrealisti con i territori nei quali vengono realizzate. Architetture a bassa tecnologia ma ad alto contenuto concettuale, le cui paradossali strategie insediative indagano l'ambiguo e indefinibile confine tra artificio e natura, parlandoci così con particolare efficacia della natura dell'artificio".
Giovanni Corbellini
Arch'it
"Architettura naturale"
22 publishing, Milano 2006
pp. 215, € 22
"È ormai qualche tempo che scambiando opinioni con altri architetti della mia generazione emerge diffusa la sensazione di trovarsi di fronte a una situazione di stallo, come se nessuno, celebri star o esordienti rampanti, fosse più in grado di produrre qualcosa di veramente significativo. Può darsi che si tratti del disincanto fisiologico di chi, avvicinandosi alla mezza età, non riesce a provare le emozioni delle prime scoperte, ma è anche vero che mostre, libri, riviste e sopralluoghi ci restituiscono un mainstream internazionale tanto ansioso di darsi una immagine sperimentale e trasgressiva quanto, in definitiva, incapace di deviazioni sulfuree o, semplicemente, di una reale capacità di tagliare angoli e meandri delle pratiche consolidate e produrre visioni innovative.
Alcuni tra i più giovani sembrano voler reagire a questa situazione riproponendo l'ennesimo ritorno a ipotesi autonomiste, ai fondamentali dell'architettura. Un tentativo quantomeno prematuro, vanificato nelle sue intenzioni rivoluzionarie dalla similitudine con i colpi di coda delle retroguardie, e, di fatto, così abusato da confermare la percezione di una disciplina avvitata in una sterile coazione a ripetere. Con maggiore freschezza, altri provano viceversa a sondare mondi paralleli, anche marginali, nei quali cercare una possibile rigenerazione del nostro sguardo, se non delle nostre attitudini progettuali. Un obiettivo che la 22 publishing, nuova casa editrice milanese, intende perseguire fin dalla sua prima proposta. Il titolo del bel libro di Alessandro Rocca, Architettura naturale, assume a questo proposito un significato programmatico, che va al di là della referenzialità diretta con i materiali in esso presentati.
La raccolta di una serie di opere e installazioni a cavallo tra arte, architettura e paesaggio, in diverso modo connesse a una manipolazione leggera di "oggetti trovati" nella e della natura, fa qui da sfondo alla ricerca di una maggiore "naturalezza" del gesto progettuale, della sua necessità. Nell'ampia sequenza di immagini e di brevi commenti relativi a lavori anche molto recenti spicca infatti il capitolo dedicato alla mostra di Bernard Rudofsky sull'Architettura senza architetti, tenutasi al MoMA nel 1964 e dedicata a illustrare esempi di edilizia prodotta direttamente dai suoi utilizzatori, soprattutto presso culture strettamente legate ai propri territori. La connessione diretta tra modi di vita, risorse disponibili e prestazioni funzionali che contraddistingue quelle realizzazioni assume per gli architetti -sostiene l'autore- il medesimo ruolo che hanno avuto silos, piroscafi, aeroplani e automobili per Le Corbusier, o -potremmo aggiungere- della strip di Las Vegas per Venturi: un invito, cioè, a spogliarsi delle sovrastrutture discipinari e guardare la realtà con attenzione ai processi che la producono.
Al contrario delle strutture indagate da Rudofsky, gli interventi raccontati da Alessandro Rocca sono tutto fuorché spontanei. Il loro interesse sta nel complesso intreccio di questioni e strumenti che sovrintende alla loro palese semplicità, nel trasferimento di modalità di approccio tra mondi differenti e nella loro sovrapposizione. La sensibilità climatica dell'Ice Pavilion di Olafur Eliasson si alterna alla differenziazione dei microclimi sperimentata da N Architects nella loro installazione al PS1 a New York. Le macchine per guardare di Ex.Studio o di Chris Drury (le cui Cloud Chamber utilizzano il principio della camera oscura) attivano specifiche condizioni paesaggistiche che danno luogo a sottolineature simboliche nei Cannocchiali estimativi di Giuliano Mauri, collocati a cavallo del Neisse tra Germania e Polonia. Analoghi effetti ottici sono rintracciabili nelle installazioni di Mikel Hansen o nella Waterhouse di Nils Udo. Ancora Giuliano Mauri usa materiale vivente nella sua Cattedrale vegetale, e come lui Marcel Kalberer nelle Sanfte Strukturen e David Nash nell'Ash Dome. Gli stessi autori e gli altri presenti nel volume impiegano largamente materiali il più delle volte reperiti in sito -acqua, pietre, ciottoli, paglia, rami, tronchi di alberi caduti- e tecniche tutt'altro che sofisticate, basate sull'autocostruzione e spesso sulla partecipazione di vasti gruppi di volontari.
Caratteristiche materiali e costruttive che istituiscono un rapporto sensibile, interattivo con luoghi e tempi, disponibile ad accogliere eventi ed incidenti in forme transitorie e temporanee. Un approccio che il mondo dell'arte definisce con la formula site specific, fatto dell'interpretazione delle potenzialità locali, dell'incontro tra quello che si trova sul posto e uno sguardo altro.
Leggendo il libro e ragionando sulle sfide progettuali lanciate dall'insieme dei suoi contenuti, mi è venuta in mente la famosa incisione di Claude-Nicolas Ledoux con la casa delle guardie campestri nel castello di Maupertuis. La sfera edificata che campeggia al centro dell'immagine è posta all'interno di uno scavo, operazione che ne sottolinea la prepotente autonomia. Quasi invisibile, sul lato sinistro dell'inquadratura, sorge una specie di "capanna primitiva" fatta di rami e di frasche, probabilmente costruita dal pastore che è lì davanti con il suo gregge. Da una parte un programmatico distacco dalla natura o, in altri termini, la raffigurazione della volontà di dominarla, dall'altra una più amichevole forma di adattamento alle occasioni contingenti. Sebbene la similitudine morfologica e materiale con il secondo approccio risulti subito evidente, le "architetture naturali" di Rocca condividono con la sfera di Ledoux più di un aspetto: esprimono specifiche e sofisticate intenzioni progettuali, descrivono e rappresentano modi contemporanei di interpretare la trasformazione ambientale, evitano di legarsi a particolari necessità funzionali, attivano contrasti quasi surrealisti con i territori nei quali vengono realizzate. Architetture a bassa tecnologia ma ad alto contenuto concettuale, le cui paradossali strategie insediative indagano l'ambiguo e indefinibile confine tra artificio e natura, parlandoci così con particolare efficacia della natura dell'artificio".
Giovanni Corbellini
Arch'it
2/22/2007
2/21/2007
Dopo le parole chiave, le lettere chiave
Mi piacciono i libri ma (non chiedetemi perché) non li leggo. L’ultimo, che (non) ho letto, è Ex libris, opera iperrealista dell’architetto Giovanni Corbellini. Il libro è geniale soprattutto perché è un non-libro che chiede, rispettoso della propria (contro) natura, di non essere letto. E io l’ho letto, incoraggiato dalle asciutte schede dell’autore, e ho preferito aggirarmi lungo gli affollati margini e all’ombra dei poscritti traendone a grandi sorsi informazioni fresche, utili memorie e accostamenti inusitati. L’estratto di titoli e autori esala a piene gote dalle pagine (gialle), e fa risuonare per l’aria una congerie di nomi esotici e illustri, di concetti audaci e nuovi, di parole d’ordine allusive e seducenti.
Avevo sottovalutato, prima di questa (non) lettura, il potere immaginifico e radiante che può avere un frammento, anche minimo, della biblioteca universale, e l’energia evocativa dei nomi e dei titoli. Tra le mille suggestioni alcune confermano, e consolidano, i libri che si sono citati con frequenza ossessiva, come lo stupendo e definitivo (titolo) Secolo breve di Hobsbawm (cognome di sonorità rara), mentre altre inseguono corrispondenze vaghe eppure potenti. Per esempio, i fortunati autori che iniziano con H emergono come una casta di privilegiati, come commercianti che hanno a disposizione un’insegna più luminosa: al citato (ineguagliabile) Hobsbawm si aggiunge il famoso Habraken, nome rauco e non dimenticabile, col suo promettente, anche se vagamente altero, The Structure of the Ordinary. Saltiamo poi i classici – l’elenco comprende la coppia d’artisti Klee & Kandinski e l’immenso Franz Kafka, il polveroso Emil Kaufmann, il tormentone Koolhaas e la pur mirabile americana Rosalind Krauss perché vogliamo giungere in fretta al clou di questa sezione, due test decisivi della sillabazione anglosassone: Kwinter, che per giunta di nome fa Stanford ed è un intellettuale avanguardista, e l’eccezionale Kwon Miwon (cognome e nome in quest’ordine), esotico esemplare di W in rima baciata. Sfiorando il mitico Huizinga, inventore di Homo Ludens, e l’ineguagliato Constant, giungiamo al vertice, molto provvisorio, della piramide olandese, con le sigle giovani e aggressive di MVRDV (giustamente ridimensionati in Mvrdv) e NLarchitects.
I nomi si susseguono a ritmo saltellante e qualche volta lasciano il passo a titoli folgoranti, terreno che vede un certo predominio della narrativa, rappresentata poco ma bene da Infinite Jest (di David Foster Wallace) e da Le correzioni (di Jonathan Franzen). Ci riporta verso l’architettura il miglior titolista di settore, Rem Koolhaas, col suo geniale Small, Medium, Large, Extralarge, abbreviato nell’acronimo tessile S, M, L, XL, e con l’ultima pseudo-rivista “Volume” che, in obbedienza alla natura provocatoria del promotore, propone un derisorio annientamento dell’architettura.
Continuando il viaggio ai margini (del testo), incontriamo altre consumate star dell’intellighenzia del novecento: J.-P. Sartre e gli aristocratici Foucault, Deleuze e Derrida (+ Baudrillard e - Barthes, assente), un Marshall MacLuhan d’annata, la sempiterna Jane Jacobs e l’assiduo Guy Debord, convitato di pietra che arriva per primo e, muto come un pesce, non se ne va neanche morto. Ma questo non è che l’inizio: restano ancora molti altri autori, una piccola folla di architetti, artisti, intellettuali e agitatori di varia natura che animano, da protagonisti o come fuggevoli comparse, il palcoscenico della cultura contemporanea.
Giovanni Corbellini, Ex libris. Sedici parole chiave dell'architettura contemporanea, 2007
Avevo sottovalutato, prima di questa (non) lettura, il potere immaginifico e radiante che può avere un frammento, anche minimo, della biblioteca universale, e l’energia evocativa dei nomi e dei titoli. Tra le mille suggestioni alcune confermano, e consolidano, i libri che si sono citati con frequenza ossessiva, come lo stupendo e definitivo (titolo) Secolo breve di Hobsbawm (cognome di sonorità rara), mentre altre inseguono corrispondenze vaghe eppure potenti. Per esempio, i fortunati autori che iniziano con H emergono come una casta di privilegiati, come commercianti che hanno a disposizione un’insegna più luminosa: al citato (ineguagliabile) Hobsbawm si aggiunge il famoso Habraken, nome rauco e non dimenticabile, col suo promettente, anche se vagamente altero, The Structure of the Ordinary. Saltiamo poi i classici – l’elenco comprende la coppia d’artisti Klee & Kandinski e l’immenso Franz Kafka, il polveroso Emil Kaufmann, il tormentone Koolhaas e la pur mirabile americana Rosalind Krauss perché vogliamo giungere in fretta al clou di questa sezione, due test decisivi della sillabazione anglosassone: Kwinter, che per giunta di nome fa Stanford ed è un intellettuale avanguardista, e l’eccezionale Kwon Miwon (cognome e nome in quest’ordine), esotico esemplare di W in rima baciata. Sfiorando il mitico Huizinga, inventore di Homo Ludens, e l’ineguagliato Constant, giungiamo al vertice, molto provvisorio, della piramide olandese, con le sigle giovani e aggressive di MVRDV (giustamente ridimensionati in Mvrdv) e NLarchitects.
I nomi si susseguono a ritmo saltellante e qualche volta lasciano il passo a titoli folgoranti, terreno che vede un certo predominio della narrativa, rappresentata poco ma bene da Infinite Jest (di David Foster Wallace) e da Le correzioni (di Jonathan Franzen). Ci riporta verso l’architettura il miglior titolista di settore, Rem Koolhaas, col suo geniale Small, Medium, Large, Extralarge, abbreviato nell’acronimo tessile S, M, L, XL, e con l’ultima pseudo-rivista “Volume” che, in obbedienza alla natura provocatoria del promotore, propone un derisorio annientamento dell’architettura.
Continuando il viaggio ai margini (del testo), incontriamo altre consumate star dell’intellighenzia del novecento: J.-P. Sartre e gli aristocratici Foucault, Deleuze e Derrida (+ Baudrillard e - Barthes, assente), un Marshall MacLuhan d’annata, la sempiterna Jane Jacobs e l’assiduo Guy Debord, convitato di pietra che arriva per primo e, muto come un pesce, non se ne va neanche morto. Ma questo non è che l’inizio: restano ancora molti altri autori, una piccola folla di architetti, artisti, intellettuali e agitatori di varia natura che animano, da protagonisti o come fuggevoli comparse, il palcoscenico della cultura contemporanea.
Giovanni Corbellini, Ex libris. Sedici parole chiave dell'architettura contemporanea, 2007
Gilles Clément a Bergamo
Dal 26 febbraio al 2 marzo il paesaggista francese Gilles Clément sarà a Bergamo, per lavorare con gli architetti Attilio Gobbi e Alessandro Rocca al progetto di un nuovo parco in località Gleno.
"Gilles Clément : parchi urbani, paesaggi in movimento"
Mercoledì 28 febbraio 2007 ore 18.00
Il prossimo 28 febbraio alle ore 18.00, presso lo Spazio ParolaImmagine della Gamec si terrà una conferenza del noto paesaggista Gilles Clément nella quale illustrerà alcune sue recenti realizzazioni e il metodo del suo lavoro.
Gilles Clément è stato recentemente invitato a far parte del team di progettazione del “Nuovo Gleno”, un progetto urbano complesso e importante commissionato dalla Fondazione Maria Ausiliatrice ONLUS, e destinato non solo a realizzare una nuova residenza per persone anziane ma anche a riqualificare una delle zone oggi meno nobili della città. Il team, composto dagli architetti Attilio Gobbi, Massimo Facchinetti e Bruno Gritti e da un nutrito gruppo di specialisti, ha recentemente esposto alla città un progetto urbanistico preliminare che prevede, tra l’altro, la realizzazione di un nuovo parco urbano di grande dimensione – circa 3 ettari – di forma autonoma e regolare, integrato nel sistema complessivo di sostenibilità del nuovo quartiere.
Gilles Clément (1943) paesaggista, ingegnere agronomo, botanico, entomologo, scrittore, ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni un’intera generazione di paesaggisti europei. Insegnante presso la ENSP (Ecole national supérieure du paysage) di Versailles, ha pubblicato tra l’altro Le jardin en mouvement (1994), Le jardin planétaire planétaire (catalogo della mostra alla Villette di Parigi, 1999), La sagesse du jardinier (2004), e due romanzi, Thomas et le Voyageur (1997) e La dernière pierre (1999). In Italia, il suo lavoro è stato approfonditamente trattato su “Domus”, “Lotus”, “Navigator” e altre riviste, ha pubblicato il libro Manifesto del terzo paesaggio (Quodlibet, 2005) ed ha in corso di stampa un nuovo libro, Sette giardini planetari (22publishing, 2007) che presenta le sue realizzazioni più importanti, tra cui: il celebre Parc André Citroën e il nuovo parco di Quai Branly a Parigi, i giardini ultramoderni della Grande Arche alla Défense e André Matisse, a Lille, gli interventi nei parchi storici di Blois e di Valloires. Gilles Clément, con il concetto di “terzo paesaggio”, ha mostrato come la biodiversità si annida in luoghi impensati (margini delle strade, aree abbandonate), mentre con lo slogan del “giardino in movimento” ha raccolto una serie di strategie minime per creare giardini lasciando fare alla natura. Il terzo concetto guida è il “giardino planetario”, esemplificato in una mostra di successo alla Grande Halle della Villette (1999), che è una visione dell’intero pianeta come di un ambiente ecologico unitario, un sistema interdipendente in cui tutti siamo ospiti attivi e passivi, e in cui tutti i nostri gesti si ripercuotono nell’armonia, o nella dissonanza, dell’insieme. Fondato su una straordinaria rielaborazione delle tematiche ecologiche e biologiche e sull’invenzione di una progettualità assolutamente originale, il lavoro di Clément rappresenta in questo momento un contributo essenziale all’aggiornamento e allo sviluppo di una nuova maniera di pensare e di progettare l’ambiente in cui viviamo.
.
"Gilles Clément : parchi urbani, paesaggi in movimento"
Mercoledì 28 febbraio 2007 ore 18.00
Il prossimo 28 febbraio alle ore 18.00, presso lo Spazio ParolaImmagine della Gamec si terrà una conferenza del noto paesaggista Gilles Clément nella quale illustrerà alcune sue recenti realizzazioni e il metodo del suo lavoro.
Gilles Clément è stato recentemente invitato a far parte del team di progettazione del “Nuovo Gleno”, un progetto urbano complesso e importante commissionato dalla Fondazione Maria Ausiliatrice ONLUS, e destinato non solo a realizzare una nuova residenza per persone anziane ma anche a riqualificare una delle zone oggi meno nobili della città. Il team, composto dagli architetti Attilio Gobbi, Massimo Facchinetti e Bruno Gritti e da un nutrito gruppo di specialisti, ha recentemente esposto alla città un progetto urbanistico preliminare che prevede, tra l’altro, la realizzazione di un nuovo parco urbano di grande dimensione – circa 3 ettari – di forma autonoma e regolare, integrato nel sistema complessivo di sostenibilità del nuovo quartiere.
Gilles Clément (1943) paesaggista, ingegnere agronomo, botanico, entomologo, scrittore, ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni un’intera generazione di paesaggisti europei. Insegnante presso la ENSP (Ecole national supérieure du paysage) di Versailles, ha pubblicato tra l’altro Le jardin en mouvement (1994), Le jardin planétaire planétaire (catalogo della mostra alla Villette di Parigi, 1999), La sagesse du jardinier (2004), e due romanzi, Thomas et le Voyageur (1997) e La dernière pierre (1999). In Italia, il suo lavoro è stato approfonditamente trattato su “Domus”, “Lotus”, “Navigator” e altre riviste, ha pubblicato il libro Manifesto del terzo paesaggio (Quodlibet, 2005) ed ha in corso di stampa un nuovo libro, Sette giardini planetari (22publishing, 2007) che presenta le sue realizzazioni più importanti, tra cui: il celebre Parc André Citroën e il nuovo parco di Quai Branly a Parigi, i giardini ultramoderni della Grande Arche alla Défense e André Matisse, a Lille, gli interventi nei parchi storici di Blois e di Valloires. Gilles Clément, con il concetto di “terzo paesaggio”, ha mostrato come la biodiversità si annida in luoghi impensati (margini delle strade, aree abbandonate), mentre con lo slogan del “giardino in movimento” ha raccolto una serie di strategie minime per creare giardini lasciando fare alla natura. Il terzo concetto guida è il “giardino planetario”, esemplificato in una mostra di successo alla Grande Halle della Villette (1999), che è una visione dell’intero pianeta come di un ambiente ecologico unitario, un sistema interdipendente in cui tutti siamo ospiti attivi e passivi, e in cui tutti i nostri gesti si ripercuotono nell’armonia, o nella dissonanza, dell’insieme. Fondato su una straordinaria rielaborazione delle tematiche ecologiche e biologiche e sull’invenzione di una progettualità assolutamente originale, il lavoro di Clément rappresenta in questo momento un contributo essenziale all’aggiornamento e allo sviluppo di una nuova maniera di pensare e di progettare l’ambiente in cui viviamo.
.
Subscribe to:
Posts (Atom)